INDICE
- San Gregorio Magno
- Sant’Antonino martire
- Santa Laconilla, vergine e martire
- Santa Giustina, vergine e martire
SAN GREGORIO MAGNO
Papa e Dottore della Chiesa Titolare della Parrocchia e del Duomo, Compatrono di Monte Porzio Catone
La nostra Parrocchia è a lui intitolata per volere di Papa Gregorio XIII che, con Breve del 1° giugno 1580, ordinò la costruzione di una chiesa a Monte Porzio dedicata a San Gregorio Magno – suo omonimo – e la contemporanea erezione di una Parrocchia, subito elevata al rango di Arcipretura.
Per approfondire la figura e l’attualità di S. Gregorio Magno, si offrono i testi delle due Udienze Generali che Benedetto XVI – Papa emerito – ha a Lui dedicate il 28 maggio e il 4 giugno 2008.
“Cari fratelli e sorelle!
… oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa!
Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. A ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.
Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio a ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa e iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.
Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e a inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. A essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo – era un vero pacificatore – , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò a un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.
Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.
Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza.
Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.
Cari fratelli e sorelle,
Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, San Gregorio Magno ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe – noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.
Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, a esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’ umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla a noi.
Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi – sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.
Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di S. Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di S. Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” – particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico – o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Papa e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.
Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.
Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze e umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone.
Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.
Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.
Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere – come soleva sottoscriversi – servus servorum Dei. Questa espressione a lui cara non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi… Proprio perché fu questo, Gregorio è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.
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SANT’ANTONINO MARTIRE
Patrono principale di Monte Porzio Catone
Di Sant’Antonino si sa pochissimo. Anche il Martirologio Romano (Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2001, p. 465) gli dedica solo poche righe: “Die 2 Septembris: APAMEAE IN SYRIA, SANCTI ANTONINI, MARTYRIS, QUI, LAPICIDA, CUM IDOLA GENTIUM DESTRUISSET, VICESIMO AETATIS ANNO PROPTER FIDEI STUDIUM A PAGANIS NECATUS ESSE FERTUR”
(2 settembre: Ad Apamea in Siria, [si celebra la memoria di] Sant’Antonino, martire, che, scalpellino, avendo distrutto gli idoli dei pagani, a vent’anni, a causa dell’amore della fede, si tramanda che da essi venne ucciso).
Non si può aggiungere molto di più a quanto dice il Martirologio, se non che Antonino visse nel III sec. d.C..
Il Racconto del suo martirio (la Passio) è andato perso purtroppo ma attraverso notizie raccolte da altri testi si può tentare di ricostruire qualche tratto biografico autentico.
– Secondo il Martirologio Geronimiano (nella redazione del codice Wissenburghense), Antonino nacque ad Aribazos nella Siria Seconda – “…in Siria provincia, in regione Apamiae Antonini pueri annorum XX vico Aprocavictu sub Costantio imperatore…” –; secondo la tradizione, scalpellino di mestiere, passando un giorno vicino Apamea di Siria, antica città posta sul fiume Oronte, rimproverò fortemente dei pagani che adoravano i loro idoli.
– Il Codice Cryptoferratense B. g IV (G.V.1), risalente a prima del X sec. ca., narra che Antonino trascorse due anni presso un anacoreta di nome Teotimo e poi fece ritorno ad Apamea, dove, rivelando uno zelo che rasentava l’imprudenza, entrò nel tempio cittadino e frantumò gli idoli dei pagani, che per questo lo percossero violentemente. Il vescovo della Città, poco tempo dopo, gli chiese di costruire una chiesa dedicata alla SS. Trinità, ma non appena Antonino iniziò i lavori fu assalito dai pagani che, offesi dal suo passato comportamento, l’uccisero. Antonino aveva solo vent’anni.
– Il Sinassario Armeno, infine, racconta che il corpo di Antonino fu dapprima smembrato e poi sepolto in una caverna ad Apamea, sulla quale il vescovo della Città fece costruire una basilica a lui dedicata. L’esistenza di questa basilica, che fu poi distrutta nel VII secolo, è confermata da citazioni negli Atti di un Concilio della Siria Seconda nel 518 d.C. e ancora in una memoria presentata dai Vescovi siri al Concilio di Costantinopoli nel 536 d.C..
Da qui la storia di Sant’Antonino finisce e comincia quelle delle sue reliquie che sarebbero state portate da un certo Festo nella Noble-Val in Francia, dopo la distruzione di Apamea; da qui passarono poi a Pamièrs e altre ancora nella vicina cittadina di Palencia in Spagna.
Più verosimilmente, le reliquie di Antonino giunsero in Francia grazie a un gruppo di monaci che avevano con sé le reliquie del Martire e che nel secolo XI si stabilirono nella piana di Tolosa. Qui essi edificarono un convento in aperta campagna: questo convento e questo luogo, che poi divennero una città, dal Santo martire di Apamea ricevettero il nome di Pamièrs e diventarono così la sua “patria” nella pia leggenda che vi si formò e che veniva ripetuta nei vari luoghi ove si venerava il nostro Santo. Di questa leggenda parla anche un nostro concittadino, don Carlo Chierichini, viceparroco di Monte Porzio nel secondo decennio del ‘900, in un libretto da lui scritto nel 1916 (II ed.) e stampato presso l’Abbazia di S. Nilo di Grottaferrata.
La diffusione del culto di S. Antonino presso Monte Porzio Catone si deve con tutta probabilità ad alcuni monaci orientali, la cui vicenda risale alla fine del VI sec. d.C.
Intorno all’anno 540 d.C., infatti, il re persiano Cosroe I distrugge la città di Apamea di Siria, patria del nostro Patrono: i monaci che lì abitavano, per salvarsi, fuggono dal Paese diretti a Occidente, portando con sé le Reliquie dei martiri apamensi. Antonino “giunge” così, come già si è sopra accennato, fino in Francia e in Spagna (proprio dalla Spagna, peraltro, proviene la Reliquia — parte dello omero destro [vedi al lato] — che fu fatta arrivare a Monte Porzio dal Card. di York nel 1771 per la dedicazione dell’Oratorio del Santo “dentro le mura”). Nel lungo tragitto compiuto, alcuni di questi monaci si stanziano anche in Italia, soprattutto nel Lazio (in cui il patronato di Antonino è attestato anche per i Comuni di Pofi, Castelnuovo di Porto, Fara Sabina, Pico Farnese, Ornara, ecc.), portando con sé, oltre alle Reliquie, pure la devozione per il Martire conterraneo (cfr. Acta SS. Septembris, I, Venezia 1756, pagg. 340-356; M. Salsano, Antonino di Apamea, santo, martire in Bibliotheca Sanctorum, II, Roma 1961, coll. 79-81). Eccoci così alle falde di Massa Porculis, presso l’antica Chiesa rurale che, già sepolcro pagano nel I sec. d.C., fu “ribattezzata” – non sappiamo con certezza quando e come – con il nome e la memoria del martire apamense S.Antonino (così viene chiamata, il 18 aprile 1068, da Gregorio III, conte di Tuscolo, nel documento con cui ne faceva dono all’Abate del monastero benedettino di Montecassino: “…ecclesia una, vocabulo S. Antonini, sita in territorio Montis Porculi…” [cfr. E. Gattula, Historia abb. Cassinensis, Venezia 1733, tomo I, pag. 236]).
Da quanto detto appare evidente che Sant’Antonino non venne mai a Monte Porzio, e anzi mai si mosse dalla Siria: e il miracolo dell’acqua, allora? Riguardo al miracolo dell’acqua che, secondo la tradizione, Sant’Antonino fece sgorgare dalla terra arida – nel luogo ove ora sorge la cappella rurale a lui dedicata – per irrigare le campagne e alleviare le sofferenze della popolazione, va detto che esso avvenne, con tutta probabilità, in Pofi (FR), in un periodo di grande siccità, e per intercessione del nostro Santo. E’ ipotizzabile che la notizia del miracolo si sia poi diffusa in altri luoghi (sin qui, tra noi) grazie ai contatti che i monaci di cui sopra intrattenevano con i loro confratelli stanziati altrove e grazie a quanti “passarono parola”.
Diversi i segni lungo i secoli dell’affetto e della venerazione che i monteporziani nutrono per il loro Patrono: nel 1769 viene posta la prima pietra dell’Oratorio di S. Antonino al centro storico. Nel 1771 è approvata canonicamente (ed è quindi già esistente da qualche tempo) dal card. Enrico Stuart, duca di York e 115° vescovo di Frascati, la Confraternita di S.Antonino Martire. Nel 1773 è commissionata a Gaetano Lapis la pala dell’altare dell’Oratorio che ha per soggetto la “Gloria di S. Antonino”. Nel 1897 è edita la I ed. della vita di S. Antonino. Agli inizi del 1900 viene composto da Suor Teodolinda, Figlia della Croce, l’inno al Santo “Venite fedeli”. Nel 1916 viene pubblicata la II ed., ampliata e aggiornata, della vita del Santo a cura di Don Carlo Chierichini, nostro concittadino. Nel 1942 viene commissionato ed eseguito l’attuale stendardo del Santo. Nell’ultimo decennio del ‘900 si intensificano gli studi sulla figura di Antonino, grazie all’impulso di Don Gioacchino Liberti prima e del Gruppo Liturgico Parrocchiale poi. Nel giugno del 1999, lo stesso Don Gioacchino Liberti, allora parroco, recatosi in pellegrinaggio in Siria con il Vescovo e il Presbiterio tuscolani, porta a Monte Porzio, in una sorta di “gemellaggio spirituale” nel nome del nostro Santo, alcune pietre tolte dal martyrion (luogo della custodia delle reliquie dei martiri, dove sicuramente è stato custodito anche il corpo di Antonino) e dal pavimento dell’antica Chiesa di Apamea; sempre nel 1999 gli alunni della locale Scuola media realizzano, aiutati dalla pittrice Marjlin J. Orlandi, un nuovo piccolo stendardo del martire siriano Antonino (il primo che lo raffigura in accordo con le poche notizie autentiche che abbiamo di lui). Recentemente, il 2 settembre 2008, il Sindaco di Monte Porzio Catone Roberto Buglia offre al S. Patrono una lampada votiva con l’olio per alimentarla. Alla base della lampada, in lingua latina, è significativamente scritto: “La Comunità cittadina… questa lampada con grande gioia / al Santo Martire Antonino / suo amato celeste Patrono / per ottenere bene e pace… offre”. Accendendola personalmente, il Sindaco avvia una tradizione che in futuro rispetteranno tutti i suoi Successori ogni 2 settembre. Due anni dopo, il 24 ottobre 2010, si verifica un evento più unico che raro: nell’ambito delle celebrazioni giubilari per il IV centenario di servizio liturgico della Basilica Cattedrale di San Pietro Apostolo a Frascati (1610-2010), nel corso di un imponente pellegrinaggio parrocchiale, le Reliquie di Sant’Antonino accompagnano i pellegrini e sono accolte nella Chiesa Madre della Diocesi (una piccolissima parte di esse, prima della Celebrazione Eucaristica, è donata alla Lipsanoteca della Cattedrale, che ne era priva – v. immagine sotto). Negli anni successivi, la costante attenzione alle celebrazioni patronali (si pensi, per es., al lavoro sui testi liturgici, alla predisposizione del sistema di filo-diffusione della voce per le processioni, alla cura dei luoghi e delle modalità delle celebrazioni…) culmina, il 4 settembre 2016, nel corso del Giubileo straordinario della misericordia e nel 250° anniversario della Dedicazione del Duomo, nella prima edizione della “Peregrinatio Sancti Antonini”: d’ora innanzi – a Dio piacendo -, una volta l’anno, durante i festeggiamenti patronali di settembre, l’immagine di Antonino lascerà il Duomo per andare a far visita ai suoi “concittadini” nei vari quartieri cittadini ove essi abitano. Tale iniziativa, nata su sollecitazione di S.E. Mons. Raffaello Martinelli, esprime ancora una volta lo affetto dei monteporziani per il loro Patrono e, ancor di più, sollecita ad annunciare la gioia del Vangelo additando l’esempio dei Santi, che lo hanno vissuto e testimoniato con la loro vita.
Riccardo Ingretolli
Bibliografia essenziale
Sulla biografia del Santo e la diffusione del suo culto:
- Martirologio Romano, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2001, p. 465
- Acta SS. Septembris, I, Venezia 1756, pagg. 340-356
- C. Daux, La Barque légendaire de saint Antonin, apôtre et martyr de Pamiers, in “Revue des questions historiques”, LXVII (1900), pagg. 402-456
- H. Delehaye, Saint et reliquaires d’Apamée, in Analecta Bollandiana, LIII (1935), pp. 225-230
- A. Jannetta, S. Antonino, martire di Apamea, cenni storici e biografici, Caluso, 1951
- M. Salsano, Antonino di Apamea, santo, martire, in Bibliotheca SS., II, Vaticano 1961, c. 79-81
- A. Pantoni, S. Antonino martire, patrono di Viticuso, in “Diocesi di Montecassino. Bollettino Diocesano”, n.s., 33 (1978), pagg. 128-137
- V. Falasca, Il culto di S. Antonino, martire di Apamea, in Saponara: annotazioni storiche sulla vita del santo e sull’importazione del suo culto, Villa d’Agri 1994
Sulla diffusione del suo culto a Monte Porzio Catone:
- B. Grandi, Cenni storici intorno alla terra di Monteporzio nell’agro tuscolano, riproduzione anastatica di manoscritti antichi (risalente al 1870 ca.; conservato in originale nell’archivio della Famiglia monteporziana degli Albertazzi; è reperibile anche presso la Biblioteca di Monte Porzio C.)
- C. Chierichini, Compendio della vita di Sant’ Antonino Martire, patrono di Monte Porzio Catone, Edizioni Tipografia Italo-Orientale di San Nilo, Grottaferrata 19162, Roma 18971
- M. Albertazzi, La Chiesuola di S. Antonino Martire a Monte Porzio, in “Castelli Romani”, 12 – Dicembre 1982, pagg. 184 e sgg.
- P. Mascherucci, Monte Porzio Catone: nella sua storia, nella sua natura, nella sua vita, Ed. Associazione Tuscolana “Amici di Frascati”, Frascati 1987, pagg. 103-110
- R. Vodret Adamo, La vicenda storica di Monte Porzio Catone e la committenza artistica di una grande famiglia romana: i Borghese, in Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma
- L’arte per i papi e per i principi nella campagna romana. Grande pittura del ‘600 e del ‘700, Ed. Quasar, Roma 1991, vol. II, pagg. 149-183 (Il testo contiene una ricchissima bibliografia cui si rimanda)
- C.A. Pallottino, C. Pizzi, L. Pozzi, L’origine romana della Chiesa di S. Antonino di Apamea a Monte Porzio Catone, in “Castelli Romani”, 36 – Dicembre 1996, pagg. 141-146.
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SANTA LACONILLA, VERGINE E MARTIRE
il cui corpo si custodisce in Duomo
Non si hanno di lei che le scarne notizie desumibili dalle due iscrizioni marmoree poste sulle pareti laterali della cappella del Duomo che ne custodisce le spoglie mortali: dalla prima, rinvenuta e presa presso la sua sepoltura catacombale, il nome e l’età (30 anni); dalla seconda che il 12 ottobre 1783 il Cardinale Enrico Duca di York, 115° vescovo di Frascati, con rito solenne, ne traslava il corpo (donato dall’agostiniano monteporziano Giovan Domenico Segarelli, custode del Sacrario Papale) dalle catacombe di S. Lorenzo in Roma, ove era stato ritrovato, a questo Duomo, ponendo egli stesso l’urna della Santa sotto l’Altare. La sua memoria liturgica è fissata al 12 ottobre.
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SANTA GIUSTINA, VERGINE E MARTIRE
il cui corpo si custodisce in Duomo
Non si hanno notizie certe su di lei. Secondo uno scritto agiografico del 1866, questa giovanissima romana si consacrò a Dio sin dalla più tenera età. Ricevuto da un tiranno l’ordine di sacrificare a Giove, rifiutò, fu torturata ed imprigionata. In carcere scacciò orrende visioni infernali facendosi il Segno della Croce, segno della nostra Redenzione. Di nuovo ricevuto l’ordine di tradire Cristo, di nuovo rifiutò fermissimamente avviandosi così al martirio il 6 ottobre 306. Il Suo corpo fu tumulato prima nelle catacombe di S.Agnese in via Nomentana a Roma, poi in una chiesa. Per qualche tempo, prima della sua attuale collocazione nel Duomo parrocchiale, il corpo della Santa è stato custodito nella cappella del palazzo della Famiglia Statuti a Monte Porzio e poi nell’Oratorio di S. Antonino. La memoria liturgica è fissata al 6 ottobre.